Operetta di e con Francesco Forlani su Carlo Pisacane e Che Guevara, con la collaborazione alla regia di Gabriella Giordano e Alessandra Terni. La voce recitante è di Alessandra Terni, le immagini della spigolatrice recitata da un bambino sono state prese e rielaborate da youtube, così come alcuni materiali documentari e filmici. I mari sono opera di Gabriella Giordano. Di seguito la registrazione a cura di Rosario Tedesco, dello spettacolo di venerdì 25 marzo alla Locanda Atlantide di San Lorenzo a Roma.
Luigi Bernardi: ‘Fuoco sui miei passi’ (SenzaPatria)
Nicoletta Vallorani: ‘Le madri cattive’
‘Le madri cattive‘ di Nicoletta Vallorani, Salani, collana Petrolio, è ancora fresco di stampa (uscito nel marzo 2011) eppure già dalle prime pagine l’impressione è che sia destinato a rimanere in raffreddamento oltre i tempi tecnici editoriali.
C’è un’etica fortemente radicata, nella società italiana, un’etica che delle ‘madri’ restituisce un preciso decalogo di ciò che deve e non deve essere, di ciò che si fa e non si fa, di ciò che si prova e, invece, di ciò che non è ammesso nemmeno nominare. E’ complicato, pieno di resistenze, il processo che tenta di scuotere fondamenta, perfino gli scossoni più impercettibili il sistema sociale tenta di assorbirli, negarli, evitarli con l’abilità del falsario consumato. Le madri sono amorevoli, attente, dedite, possono essere rigide e severe ma è tutto funzionale all’amore per i figli. Le madri non rifiutano.
Siamo macchine più elementari della altre, e basta così poco a compromettere il nostro funzionamento. Un bicchiere di vino in più, oppure una carezza che ci viene fatta, comprensione che arriva a sorpresa proprio quando la vorremmo. Basta poco.
Un bicchiere di vino in più.
Una bella passeggiata.
Una persona che mi è piaciuta.
Parole che ho detto, sentendomi quasi in pace.
Un ricordo di troppo.
Non sono sicura di sapere tutto quello che ho raccontato a Paolo.
O forse sì.
Nulla di compromettente.
Ora sono stanca, però.
Guardo le mie foto sul muro.
Le mie figlie cattive.
La mia figlia non nata, affogata nel bianco di un ospedale.
L’aborto.
Basta, ora.
Facciamo silenzio.
(pag.145-146)
Si tratta di un romanzo che da subito impone atmosfere, umori, visioni, ritmi e affondi intensi, ci si entra con facilità, i personaggi sfilano, si lasciano carezzare, radiografare ma gli affondi sono dietro l’angolo, improvvisi e insidiosi.
Federica Sgaggio: ‘L’avvocato G’ (SenzaPatria)
Fonte: AgoraVox del 11 novembre 2010.
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Kai Zen: Delta Blues
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Fonte: Lankelot, di Andrea Consonni, ottobre 2010.
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Assistendo al quotidiano spettacolo messo in scena dai mezzi d’informazione viene da chiedersi se l’Africa (ma questo vale anche per l’Asia e l’America Latina) esista ancora fisicamente e se il mondo in cui viviamo sia realmente ancora quello rintracciabile su un Atlante Geografico. A ricordarci dell’esistenza del continente africano sono saltuariamente le notizie riguardanti la tale modella chiamata a rispondere di un diamante insanguinato, l’epidemia o la catastrofe che provoca un tale numero di morti da richiamare orde di cronisti affamati di scoop (se sono coinvolti dei turisti europei ancora meglio), il rapimento di qualche occidentale (ma se il rapimento non ha una rapida soluzione, addio notizia) o lo sbarco di mezzi d’assalto in stile D-Day-Somalia e soprattutto documentari o reportage di viaggio in televisione a o trasmessi privatamente ai propri cari, senza per altro dimenticare gli stadi dell’ultimo mondiale di calcio disputato in terra sudafricana.
Tutto il resto passa nel silenzio più assoluto, nel dimenticatoio, tanto siamo impegnati nel nostro microcosmo di letterine, partite di calcio e grandi fratelli. Recuperare notizie spetta al singolo che deve affidarsi alle poche riviste o siti internet specializzati, ai racconti di prima mano dei missionari (come accade al sottoscritto) o di operatori umanitari che svolgono il proprio duro lavoro in quei luoghi.
Meritevole è allora l’operazione condotta dalla casa editrice VerdeNero-Edizioni Ambiente e da Kai Zen, gruppo di narratori composto da Jadel Andreetto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa e Aldo Soliani, che con il loro «Delta Blues» (il blues statunitense degli anni ’20 e ’30 che deve il suo nome al Mississippi Delta) aprono uno squarcio doloroso nel velo di silenzio che circonda i paesi africani.
Kai Zen concentra la propria attenzione sulla Nigeria, una nazione dove da anni, se non da secoli (pensiamo solo alla tratta degli schiavi), sono in atto dei veri e propri genocidi e disastri naturali in nome del petrolio. Un genocidio praticato nel silenzio, con l’ovvia complicità dei governanti nigeriani, da parte delle compagnie petrolifere come Shell e Eni.
E’ sufficiente leggere come si espresse nel 2009 Christine Weise, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, a proposito del coinvolgimento delle compagnie petrolifere in questo genocidio:
“Il fatto che un governo non protegga i diritti umani dei suoi cittadini non assolve le compagnie petrolifere, così come il fatto che lo stesso governo non chiami queste ultime a rispondere del proprio operato non rende la Shell, l’Eni e le altre compagnie che operano nel paese libere di ignorare le conseguenze delle proprie azioni. Gli standard internazionali non sono una cosa che le compagnie possono scegliere di aggirare: esistono standard internazionali sulle attività delle compagnie petrolifere e sull’impatto sociale e ambientale, di cui le compagnie che operano nel Delta del Niger sono ampiamente informate”
Nicoletta Vallorani: ‘Occhi di lupo’(SenzaPatria)
Demetrio Paolin: tra sé e ‘Il mio nome e Legione’
Fonte: AgoraVox del 2 luglio 2009.
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Recita la breve biografia pubblicata da Transeuropa: “Demetrio Paolin, classe 1974, vive a Torino dove svolge l’attività di ufficio stampa.
Ha pubblicato i libri Il pasto grigio (Untitled Editori), Una tragedia negata (Vibrisselibri/Il Maestrale).
Alcuni suoi racconti e saggi sono apparsi in riviste («Nuova Prosa», «Nuovi Argomenti») e in antologie (Vite rovinate dal pallone, Giulio Perrone Editore) o su blog letterari come Nazione Indiana e La poesia e lo spirito.
Ha curato, per le Edizioni Dell’Orso, le memorie di Giuseppe Calore raccolte ne Il partigiano disarmato. Il suo saggio “La memoria e l’oltraggio. Primo Levi interprete di Dante”, è stato pubblicato dalla rivista universitaria «Levia Gravia» (Edizioni Dell’Orso). Questo è il suo primo romanzo“.
Mi rimbalzano così alcune parole, chiavi forse, ma anche no.
Torino. Ufficio stampa. Racconti. Saggi. Demetrio. Romanzo.
Provo a virare, riprendo in mano il libro (riprendo perché non è la prima lettura, questa, alcuni appunti ‘di pancia’ qui), la quarta di copertina recita:
‘Questo romanzo racconta la storia di Demetrio, giornalista trentenne, e del suo rapporto con determinate figure della memoria, pubblica e privata, che da sempre lo ossessionano e lo influenzano’.
Eppure c’è di più, molto di più in quello che abitualmente viene definito riassunto della trama, trama che è struttura a incastro, fusione di frammenti e sviluppi uniti da piani differenti, diversi perfino nell’incedere (il più delle volte). Pezzetti di materia dove – si – qualcosa succede, ma i legami non sono visibili dallo strato superficiale, i tempi e gli spazi si spezzano, i respiri interrompono consequenzialismi ridefinendo una ragnatela fine, ma – come già accennato – è necessario infilare la testa sott’acqua, dalla superficie poco pare ‘sensato’ o quanto meno ‘legato’ al resto.
Eppure. Il protagonista, è un giornalista trentenne ma non lo sarà alla fine della narrazione. Finirà in uno sgabuzzino, sulla porta una targhetta che recita ‘ufficio stampa’. Ma il protagonista è anche osservatore attento, curioso, complesso nel suo immagazzinare volti, sentimenti, sensi sotterranei, nell’analizzare gesti, azioni, motivazioni. Scrive dunque, avvalendosi di varie modalità, mail che sono lettere virtuali, articoli dove l’elemento narrativo si impone, un apologo, e molti appunti misti, incontri di pensieri, miscelazioni.
Poi. Il protagonista va a vivere a Torino che “è” la sua città, la sente sua pur non essendoci nato.
Infine. Si chiama Demetrio, arrivando fino alla definizione di ‘Demetrio P.’ a pag.43.
Una delle abitudini di lettura più criticate, lo si sente ripetere spesso, è quella di dare per scontato che l’autore abbia scritto di sé, che magari il protagonista sia proprio lui, che i gesti, le parole, o gli accadimenti li conosca per averli vissuti piuttosto che ‘costruiti, impastati’. Il più delle volte, infatti, non è così, non del tutto, non necessariamente insomma.
Stavolta però qualcosa vistosamente stride. E non sono i fatti in sé, i nomi. Piuttosto quei sensi sotterranei capaci di delineare i tratti di un protagonista complesso, contradditorio. Difficile da avvicinare leggendo pagine bidimensionali che racchiudono simboli, codici, ragnatele visibili solo sott’acqua.
Lo chiedo direttamente all’autore: mi parli del Demetrio ‘di carta’ e di quello ‘di carne’? Puoi raccontarmeli, come vuoi, nelle vicinanze quanto nelle differenze?
Prima di tutto la scelta di arrivare a chiamare il personaggio del romanzo Demetrio è stata lunga e per nulla scontata. Anche la scelta di usare la terza persona invece della prima è stata per me un motivo di ripensamenti e di riscritture. Per il lettore la coincidenza tra il Demetrio personaggio e Demetrio l’autore è totale. Mi sono chiesto più volte: se il protagonista di Legione si fosse chiamato in un altro modo, il lettore avrebbe comunque pensato che l’autore e il protagonista fossero coincidenti? La risposta che mi sono dato è che sì, per il lettore la coincidenza narratore e protagonista era totale.
Andrea Di Consoli: considerazioni sparse
Fonte: AgoraVox del 28 Ottobre 2010.
Non so quanto sia effettivamente possibile comprendere di un autore attraverso i suoi scritti. Nel caso di Di Consoli evidentemente le mie sono percezioni mancanti di creature di parole. Eppure in ogni periodare, in ogni intervento, articolo, narrazione in prosa e poesia, se penso al Di Consoli di carne mi vengono in mente subito due aggettivi: inquietudini e tormenti.
C’è, io credo, un’esigenza di sangue e pelle da parte dell’autore di cercare continuamente, indagare la natura umana, l’esistenza tutta, traendone grandi sforzi, fatiche che ne lacerano a loro volta le carni. I personaggi dei due romanzi ne sono esempio lampante. Così come la lingua stessa, sapientemente dosata, controllata e lanciata da Di Consoli, è fusione di saliva, gengive, palato, corte vocali instabili e labbra arse dal sole, screpolate dal freddo, rotte da gesti e morsi. Di Consoli si interroga continuamente, esattamente come fa il Bambino, protagonista de ‘Il padre degli animali’. Si interroga su sé stesso, su ciò che gli è successo, su scelte, rinunce. E lo fa al di fuori del biografismo rassicurante, lo fa allungando lo sguardo, scegliendo personaggi, voci, storie e versi che di lui mantengono taluni umori, sapori intensi, a tratti fastidiosi, urticanti, ma che si espandono in un ‘attorno’ che è visione d’insieme, consapevolezze che quelle inquietudine, quei tormenti non sono punti di arrivo men che meno indagini private.
Le origini sono cosa seria, per Di Consoli. Di Consoli è nato a Zurigo da genitori lucani che per una decina d’anni ci sono anche tornati assieme al figlio, in questa lucania che l’autore non dimentica pur essendosi trasferito a Roma dal 1996. Ed è un Sud durissimo, quello evocato dall’autore, duro e povero, perennemente incerto tra onore e malavita, incapace di rialzarsi, di riappropriarsi di un’economia in grado di sfamare tutti.
Questo Sud, nonché il suo abbandono, quest’origine che è poi diventato abbandono, sembrano essere, per l’autore, ferite aperte, incicatrizzabili. Ritornano insistentemente tra parole, versi e storie. Ritornano con l’affettuoso rammarico del legame complesso, difficile, a tratti insostenibile, eppure indistruttibile. Ed è raro, un legame di questo tempo, quanto meno dell’italia contemporanea che di radici ne ha strappate probabilmente troppe. Dove ci si sposta in fretta, si lasciano luoghi per altri e ci si dimentica. Ma la smemoratezza non contagia Di Consoli.