Francesco Forlani: “Patrioska”

Operetta di e con Francesco Forlani su Carlo Pisacane e Che Guevara, con la collaborazione alla regia di Gabriella Giordano e Alessandra Terni. La voce recitante è di Alessandra Terni, le immagini della spigolatrice recitata da un bambino sono state prese e rielaborate da youtube, così come alcuni materiali documentari e filmici. I mari sono opera di Gabriella Giordano. Di seguito la registrazione a cura di Rosario Tedesco, dello spettacolo di venerdì 25 marzo alla Locanda Atlantide di San Lorenzo a Roma.


Luigi Bernardi: ‘Fuoco sui miei passi’ (SenzaPatria)

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Fonte:  AgoraVox del 4 novembre 2010.
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Narrato in prima persona, Fuoco sui miei passi di Luigi Bernardi è una storia per certi versi da giorno del giudizio. Il protagonista, nato l’11 settembre 2001, nel momento in cui si svolge la narrazione principale, il 2037, lavora come vigile del fuoco ma non si occupa più di spegnere incendi o salvare persone dalla fiamme. Quelli come lui, i pompieri nella Bologna del 2037, non devono più preoccuparsi da tempo di spegnere piuttosto accendono le fiamme per eliminare residui e cadaveri. Ma il protagonista ha un piano, un’idea destinata a rivoluzionare il degrado d’una città già smembrata da interessi economici e miserie. Assieme a lui Maddalena, una donna forte, un legame che è carne, unione di anime, d’intenti e capacità. Una storia crudele quanto verosimile dove Bernardi si muove agevolmente tra location note e immaginazioni che non potrebbero essere più dense, pregne di quel qualcosa che rende ogni situazione vicina a un reale attuale, l’anno dichiarato all’inizio della narrazione non sempre è così evidente, la costruzione immaginativa serrata non lascia troppi spazi ai dubbi.
Una storia in cui Bernardi cede a una lingua meno controllata, funzionale alle evoluzioni quanto i pensieri del personaggio stesso. Una lingua diretta, sciolta e cruda.
La contestualizzazione geografica non sembra casuale, nelle pieghe d’una Bologna sfaldata, tra quartieri ‘da salvare’ e altri destinati a scomparire, si nascondono ben altri significati anche per l’attuale veste della città.
Non dimentica, Bernardi, alcuni tratteggi sfocati su cosa ha determinato una condizione così catastrofica in città e, in generale, in tutt’Italia, tra sangue, morti e fuoco. Tratteggi, per l’appunto, accenni mai casuali mai insensati piuttosto coerenti con un narrare che delinea un futuro potenziale tra i possibili futuri ma lo fa con la consapevole padronanza d’un presente già macchiato, infettato.
Coinvolgente, ironico, a tratti eccitante, cupo ma con un finale che sorprende (forse un tradimento, questo finale ‘oltre’ la fine, forse no).
«Ti sei mai fatto aiutare da qualcuno?».
«Ci vorranno settimane», bleffo.
«Ti tolgo dalla ronda e ti assegno due uomini di scorta, due guardie private di una delle famiglie che stanno dentro la zona da salvare. Sono posti pericolosi quelli, meglio andarci cauti».
E per andarci cauto mi dà due uomini prezzolati da qualcuno che vorrei uccidere.
«Grazie, mi sa che ne ho bisogno», dico così per dire.
«Naturalmente puoi prendere tutto il plastico che ti serve».
Mi consegna una fotocopia ridotta del cazzo e dei suoi dintorni. Il cazzo stavolta è evidenziato in verdino. Mi chiedo se il comandante non sia gay, ma non perdo tempo a darmi una risposta.
(pag.36)

Nicoletta Vallorani: ‘Le madri cattive’

Le madri cattive‘ di Nicoletta Vallorani, Salani, collana Petrolio, è ancora fresco di stampa (uscito nel marzo 2011) eppure già dalle prime pagine l’impressione è che sia destinato a rimanere in raffreddamento oltre i tempi tecnici editoriali.

C’è un’etica fortemente radicata, nella società italiana, un’etica che delle ‘madri’ restituisce un preciso decalogo di ciò che deve e non deve essere, di ciò che si fa e non si fa, di ciò che si prova e, invece, di ciò che non è ammesso nemmeno nominare. E’ complicato, pieno di resistenze, il processo che tenta di scuotere fondamenta, perfino gli scossoni più impercettibili il sistema sociale tenta di assorbirli, negarli, evitarli con l’abilità del falsario consumato. Le madri sono amorevoli, attente, dedite, possono essere rigide e severe ma è tutto funzionale all’amore per i figli. Le madri non rifiutano.

Siamo macchine più elementari della altre, e basta così poco a compromettere il nostro funzionamento. Un bicchiere di vino in più, oppure una carezza che ci viene fatta, comprensione che arriva a sorpresa proprio quando la vorremmo. Basta poco.
Un bicchiere di vino in più.
Una bella passeggiata.
Una persona che mi è piaciuta.
Parole che ho detto, sentendomi quasi in pace.
Un ricordo di troppo.
Non sono sicura di sapere tutto quello che ho raccontato a Paolo.
O forse sì.
Nulla di compromettente.
Ora sono stanca, però.
Guardo le mie foto sul muro.
Le mie figlie cattive.
La mia figlia non nata, affogata nel bianco di un ospedale.
L’aborto.
Basta, ora.
Facciamo silenzio.
(pag.145-146)

Si tratta di un romanzo che da subito impone atmosfere, umori, visioni, ritmi e affondi intensi, ci si entra con facilità, i personaggi sfilano, si lasciano carezzare, radiografare ma gli affondi sono dietro l’angolo, improvvisi e insidiosi.

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Federica Sgaggio: ‘L’avvocato G’ (SenzaPatria)

Fonte: AgoraVox del 11 novembre 2010.

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L’avvocato G è una storia dove Federica Sgaggio dà libero sfogo a una scrittura uterina e cerebrale, una scrittura all’apparenza frizzante, leggera nell’accezione di facile da capire e veloce da cogliere. In realtà, la velocità è un’arma, una delle caratteristiche di un ritmo che s’impone dall’inizio, che afferra il lettore per una manica o direttamente il bavero e lo trascina in un percorso dapprima stordente ma che poi si delinea, inspessendo corpi e sentimenti, confusioni, e desideri mutevoli. Dalle prime inquadrature i personaggi della Sgaggio non sono ciò che ci si aspetta, non del tutto (la bella-buona, l’eroe corteggiatore, gli ostacoli a dividerli, un ex o comunque un altro-altra a mettersi in mezzo…) perché dalle prime righe il narrare mostra la consapevolezza dei dettagli, la messa a fuoco delle stonature quotidiane. Eppure entrando nel ritmo della storia non è difficile riconoscere tra ragionamenti e sviluppi l’amico, il vicino, il collega, la moglie di, sé stesso. È una storia d’amore, più d’una, dove la realtà ha un posto d’onore tra complessità, confusioni, cambiamenti e scelte le cui conseguenze non sono poi così prevedibili.
Interessante è l’uso dei registri narrativi. Il cuore della storia è narrato in seconda persona ma non mancano variazioni che il lettore non può ignorare e che inizialmente rischiano di confondere ma è un effetto pronto a svanire rapidamente e che premia la comprensione generale d’una storia semplice e difficile allo stesso tempo.
La Sgaggio ha la maturità di non sfiorare il banale o meglio, di rendere un intreccio non originale di per sé (che non è necessariamente un difetto, di intrecci amorosi ormai se ne scrive da secoli) qualcosa di sfilacciato, che quasi si ribella agli stessi personaggi.
Una storia che si legge anche in piedi, sul bus o la metropolitana, ironica ma capace di toccare corde intime e stupire.
“Sapevi che era lui quello con cui dovevi farlo.
Non avevi avuto palle da farti tagliare, tu.
Ma anche tu avevi bisogno di metterti alla prova, di vederti dea, di vedere che il tuo corpo piaceva, che non eri solo testa, che la tua pelle cantava, che un uomo poteva perdere il senno solo a guardarti e baciarti e a toccarti e a sentirti.
C’erano gli estremi della predestinazione, Vostro Onore, se la predestinazione fosse un’attenuante generica e noi stessimo qui parlando in un’aula di tribunale per difendere un imputato che sarebbe molto difficile chi è, se tu, lui, la moglie, il mondo, o qualcun altro.
Qualcos’altro, forse.
La paura di morire, o di non vivere con sufficiente intensità.”
 

Kai Zen: Delta Blues

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Fonte: Lankelot, di Andrea Consonni, ottobre 2010.

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Assistendo al quotidiano spettacolo messo in scena dai mezzi d’informazione viene da chiedersi se l’Africa (ma questo vale anche per l’Asia e l’America Latina) esista ancora fisicamente e se il mondo in cui viviamo sia realmente ancora quello rintracciabile su un Atlante Geografico. A ricordarci dell’esistenza del continente africano sono saltuariamente le notizie riguardanti la tale modella chiamata a rispondere di un diamante insanguinato, l’epidemia o la catastrofe che provoca un tale numero di morti da richiamare orde di cronisti affamati di scoop (se sono coinvolti dei turisti europei ancora meglio), il rapimento di qualche occidentale (ma se il rapimento non ha una rapida soluzione, addio notizia) o lo sbarco di mezzi d’assalto in stile D-Day-Somalia e soprattutto documentari o reportage di viaggio in televisione a o trasmessi privatamente ai propri cari, senza per altro dimenticare gli stadi dell’ultimo mondiale di calcio disputato in terra sudafricana.

Tutto il resto passa nel silenzio più assoluto, nel dimenticatoio, tanto siamo impegnati nel nostro microcosmo di letterine, partite di calcio e grandi fratelli. Recuperare notizie spetta al singolo che deve affidarsi alle poche riviste o siti internet specializzati, ai racconti di prima mano dei missionari (come accade al sottoscritto) o di operatori umanitari che svolgono il proprio duro lavoro in quei luoghi.

Meritevole è allora l’operazione condotta dalla casa editrice VerdeNero-Edizioni Ambiente e da Kai Zen, gruppo di narratori composto da Jadel Andreetto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa e Aldo Soliani, che con il loro «Delta Blues» (il blues statunitense degli anni ’20 e ’30 che deve il suo nome al Mississippi Delta) aprono uno squarcio doloroso nel velo di silenzio che circonda i paesi africani.

Kai Zen concentra la propria attenzione sulla Nigeria, una nazione dove da anni, se non da secoli (pensiamo solo alla tratta degli schiavi), sono in atto dei veri e propri genocidi e disastri naturali in nome del petrolio. Un genocidio praticato nel silenzio, con l’ovvia complicità dei governanti nigeriani, da parte delle compagnie petrolifere come Shell e Eni.

E’ sufficiente leggere come si espresse nel 2009 Christine Weise, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, a proposito del coinvolgimento delle compagnie petrolifere in questo genocidio:

Il fatto che un governo non protegga i diritti umani dei suoi cittadini non assolve le compagnie petrolifere, così come il fatto che lo stesso governo non chiami queste ultime a rispondere del proprio operato non rende la Shell, l’Eni e le altre compagnie che operano nel paese libere di ignorare le conseguenze delle proprie azioni. Gli standard internazionali non sono una cosa che le compagnie possono scegliere di aggirare: esistono standard internazionali sulle attività delle compagnie petrolifere e sull’impatto sociale e ambientale, di cui le compagnie che operano nel Delta del Niger sono ampiamente informate

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Nicoletta Vallorani: ‘Occhi di lupo’(SenzaPatria)

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Fonte: AgoraVox del11 novembre 2010.
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“Questa è la storia di come sono diventata grande”.
Inizia così, nel prologo, Occhi di lupo di Nicoletta Vallorani, una storia sfumata in favola originariamente pubblicata nel 2000 da EL. Il lettore capisce in fretta che il linguaggio sciolto ma cadenzato, che ha una sua sonorità intensa, accelera e frena all’occorrenza; il lettore insomma impara a familiarizzare con personaggi che sono corpi ma anche altro, sono simboli di sentimenti, intrecci, legami. Si nominano spesso il dolore, l’infelicità, l’incapacità di impedire al male di essere ciò che è ma anche la necessità di affrontarlo, questo male, come si può, come corpo e mente riescono senza cadere troppo in basso, senza cedere. Poi c’è la morte, anch’essa parte delle cose, aguzzina, crudele, che lascia vuoti incolmabili, che cambia le persone. È un mondo duro, quello narrato dalla Vallorani, un mondo gelido e bianco, ostile alla vita dove le donne sopravvivono più facilmente, dove la loro forza prevale e le costringe a imparare presto, subito, a convivere con silenzio, lentezze e privazioni. La protagonista, anche narratrice, racconta con disincanto della grande fatica del vivere, e lo fa con poche parole, uno stile asciutto, deciso e preciso quanto basta. Ma è anche una storia sulle diversità, sull’affrontare ciò che appare diverso, sul riconoscere negli occhi di lupo ciò che non necessariamente può ferire e fare del male. Vallorani asseconda la struttura del genera ma la fa propria, lasciando all’incanto, alle atmosfere il difficile compito di de-banalizzare tematiche ‘universali’.
Una favola che narra con delicatezza, da regalare ai figli in quel limbo tra fanciullezza e adolescenza, da far leggere in treno mentre fuori diluvia, o in coda da qualche parte quando l’impazienza giovanile scalpita e si vorrebbe cedere alla musica a tutto volume.
– La verità è quello che vedi, – mormorò Occhi di lupo. – Non ci sono fantasmi nel buio -. Occhi di lupo si sfilò la maglietta. – Vedi? Sono sempre io –.
(pag.59)

Demetrio Paolin: tra sé e ‘Il mio nome e Legione’

Fonte: AgoraVox del 2 luglio 2009.

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Recita la breve biografia pubblicata da Transeuropa: “Demetrio Paolin, classe 1974, vive a Torino dove svolge l’attività di ufficio stampa.
Ha pubblicato i libri Il pasto grigio (Untitled Editori), Una tragedia negata (Vibrisselibri/Il Maestrale).
Alcuni suoi racconti e saggi sono apparsi in riviste («Nuova Prosa», «Nuovi Argomenti») e in antologie (Vite rovinate dal pallone, Giulio Perrone Editore) o su blog letterari come Nazione Indiana e La poesia e lo spirito.
Ha curato, per le Edizioni Dell’Orso, le memorie di Giuseppe Calore raccolte ne Il partigiano disarmato. Il suo saggio “La memoria e l’oltraggio. Primo Levi interprete di Dante”, è stato pubblicato dalla rivista universitaria «Levia Gravia» (Edizioni Dell’Orso). Questo è il suo primo romanzo“.

Mi rimbalzano così alcune parole, chiavi forse, ma anche no.
Torino. Ufficio stampa. Racconti. Saggi. Demetrio. Romanzo.

Provo a virare, riprendo in mano il libro (riprendo perché non è la prima lettura, questa, alcuni appunti ‘di pancia’ qui), la quarta di copertina recita:
‘Questo romanzo racconta la storia di Demetrio, giornalista trentenne, e del suo rapporto con determinate figure della memoria, pubblica e privata, che da sempre lo ossessionano e lo influenzano’.

Eppure c’è di più, molto di più in quello che abitualmente viene definito riassunto della trama, trama che è struttura a incastro, fusione di frammenti e sviluppi uniti da piani differenti, diversi perfino nell’incedere (il più delle volte). Pezzetti di materia dove – si – qualcosa succede, ma i legami non sono visibili dallo strato superficiale, i tempi e gli spazi si spezzano, i respiri interrompono consequenzialismi ridefinendo una ragnatela fine, ma – come già accennato – è necessario infilare la testa sott’acqua, dalla superficie poco pare ‘sensato’ o quanto meno ‘legato’ al resto.

Eppure. Il protagonista, è un giornalista trentenne ma non lo sarà alla fine della narrazione. Finirà in uno sgabuzzino, sulla porta una targhetta che recita ‘ufficio stampa’. Ma il protagonista è anche osservatore attento, curioso, complesso nel suo immagazzinare volti, sentimenti, sensi sotterranei, nell’analizzare gesti, azioni, motivazioni. Scrive dunque, avvalendosi di varie modalità, mail che sono lettere virtuali, articoli dove l’elemento narrativo si impone, un apologo, e molti appunti misti, incontri di pensieri, miscelazioni.

Poi. Il protagonista va a vivere a Torino che “è” la sua città, la sente sua pur non essendoci nato.

Infine. Si chiama Demetrio, arrivando fino alla definizione di ‘Demetrio P.’ a pag.43.

Una delle abitudini di lettura più criticate, lo si sente ripetere spesso, è quella di dare per scontato che l’autore abbia scritto di sé, che magari il protagonista sia proprio lui, che i gesti, le parole, o gli accadimenti li conosca per averli vissuti piuttosto che ‘costruiti, impastati’. Il più delle volte, infatti, non è così, non del tutto, non necessariamente insomma.

Stavolta però qualcosa vistosamente stride. E non sono i fatti in sé, i nomi. Piuttosto quei sensi sotterranei capaci di delineare i tratti di un protagonista complesso, contradditorio. Difficile da avvicinare leggendo pagine bidimensionali che racchiudono simboli, codici, ragnatele visibili solo sott’acqua.

Lo chiedo direttamente all’autore: mi parli del Demetrio ‘di carta’ e di quello ‘di carne’? Puoi raccontarmeli, come vuoi, nelle vicinanze quanto nelle differenze?

Prima di tutto la scelta di arrivare a chiamare il personaggio del romanzo Demetrio è stata lunga e per nulla scontata. Anche la scelta di usare la terza persona invece della prima è stata per me un motivo di ripensamenti e di riscritture. Per il lettore la coincidenza tra il Demetrio personaggio e Demetrio l’autore è totale. Mi sono chiesto più volte: se il protagonista di Legione si fosse chiamato in un altro modo, il lettore avrebbe comunque pensato che l’autore e il protagonista fossero coincidenti? La risposta che mi sono dato è che sì, per il lettore la coincidenza narratore e protagonista era totale.

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Andrea Di Consoli: considerazioni sparse

Fonte: AgoraVox del 28 Ottobre 2010.

Inquietudini, tormenti.
Non so quanto sia effettivamente possibile comprendere di un autore attraverso i suoi scritti. Nel caso di Di Consoli evidentemente le mie sono percezioni mancanti di creature di parole. Eppure in ogni periodare, in ogni intervento, articolo, narrazione in prosa e poesia, se penso al Di Consoli di carne mi vengono in mente subito due aggettivi: inquietudini e tormenti.
C’è, io credo, un’esigenza di sangue e pelle da parte dell’autore di cercare continuamente, indagare la natura umana, l’esistenza tutta, traendone grandi sforzi, fatiche che ne lacerano a loro volta le carni. I personaggi dei due romanzi ne sono esempio lampante. Così come la lingua stessa, sapientemente dosata, controllata e lanciata da Di Consoli, è fusione di saliva, gengive, palato, corte vocali instabili e labbra arse dal sole, screpolate dal freddo, rotte da gesti e morsi. Di Consoli si interroga continuamente, esattamente come fa il Bambino, protagonista de ‘Il padre degli animali’. Si interroga su sé stesso, su ciò che gli è successo, su scelte, rinunce. E lo fa al di fuori del biografismo rassicurante, lo fa allungando lo sguardo, scegliendo personaggi, voci, storie e versi che di lui mantengono taluni umori, sapori intensi, a tratti fastidiosi, urticanti, ma che si espandono in un ‘attorno’ che è visione d’insieme, consapevolezze che quelle inquietudine, quei tormenti non sono punti di arrivo men che meno indagini private.
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Il Sud e l’abbandono della propria terra.
Le origini sono cosa seria, per Di Consoli. Di Consoli è nato a Zurigo da genitori lucani che per una decina d’anni ci sono anche tornati assieme al figlio, in questa lucania che l’autore non dimentica pur essendosi trasferito a Roma dal 1996. Ed è un Sud durissimo, quello evocato dall’autore, duro e povero, perennemente incerto tra onore e malavita, incapace di rialzarsi, di riappropriarsi di un’economia in grado di sfamare tutti.
Questo Sud, nonché il suo abbandono, quest’origine che è poi diventato abbandono, sembrano essere, per l’autore, ferite aperte, incicatrizzabili. Ritornano insistentemente tra parole, versi e storie. Ritornano con l’affettuoso rammarico del legame complesso, difficile, a tratti insostenibile, eppure indistruttibile. Ed è raro, un legame di questo tempo, quanto meno dell’italia contemporanea che di radici ne ha strappate probabilmente troppe. Dove ci si sposta in fretta, si lasciano luoghi per altri e ci si dimentica. Ma la smemoratezza non contagia Di Consoli.

Barbara Garlaschelli: Davì (SenzaPatria)

Fonte: AgoraVox del 11 novembre 2010.
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Davì di Barbara Garlaschelli è un racconto diretto, schietto:
“Mi chiamo Davide. Ma mia madre mi chiamava Davì. Ora che se n’è andata non c’è più nessuno a chiamarmi così. Ho diciannove anni, ma a volte è come se me ne sentissi molti di meno. A volte, invece, è come se mi sentissi tutti gli anni del mondo. Credo capiti a tutti prima o poi. Il tempo è una cosa strana. Si dilata, si restringe, si asciuga, si riempie. Si riempie di tutta la nostra vita e anche di quella degli altri. La contiene. Un’enorme borsa della spesa in cui ficcare dentro desideri, sogni, fantasie. Bello.”
L’autrice sceglie d’iniziare a narrare attraverso la voce d’un protagonista giovane e curioso, fragile ed esposto. E la sceglie, questa voce, per dare all’intera narrazione quel ritmo sospeso tra l’incanto adolescenziale e le forti emozioni istintive. A tratti Davì pare quasi un bambino, tant’è candido e semplice il suo modo di vedere il mondo quanto ciò che racconta. Poi d’improvviso torna il diciannovenne solo, che dorme in un centro commerciale, e in biblioteca vive tra i mondi dei libri e Beatrice. Il narratore-protagonista non è diligente, non racconta cronologicamente la sua storia, si concede frequenti virate tra piani temporali e libere annotazioni. È un tipico adolescente indisciplinato con una vita faticosa, per strada, e l’immagine d’una famiglia che vorrebbe buttare via assieme all’unica fotografia che li ritrae tutti e tre assieme.
Ma Garlaschelli è regista esperto, sa quando è tempo di spiegare in altro modo, alternando la voce di Davì con un narratore in terza persona. Perché questa non è solo la storia di Davide, ci sono Beatrice, Nicla, la madre di Davide, il bambino incollato al vetro, la fioraia stanca, l’uomo lumaca, la donna senza sogni. Ci sono schegge di vite che l’autrice ha ascoltato poi impastato in una scrittura fresca e paziente, abile ad accompagnare il lettore tra angolazioni e corpi.
Sul finire si resta quasi dispiaciuti, che non ci sia altro, che una certa sospensione testimoni l’abbandono di vite che si iniziava a conoscere (forse capire). È probabilmente una narrazione che potrebbe trovare ulteriori respiri, pause e dilatazioni in una forma ‘romanzo’ per la naturale tendenza a soppesare le maree che si ritirano, a dare spessore ai personaggi attraverso abbandoni, interruzioni, poi ricerche, gesti e azioni a decomprimere emozioni forti.
Un piccolo libro che mette in ‘stand-by’ il tempo, strappa sorrisi e confonde, in un crescendo di arrivi e partenze fino alla dichiarazione finale verso un “scivolare via e lasciarsi trasportare” che i viaggiatori di oggi e domani dovrebbero riconoscere o imparare ad assecondare.
 

Andrea Villani: tre domande

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Fonte: AgoraVox del 25 novembre2010.
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L’abitudine è quella di catalogare ogni cosa.
Oggetti, mestieri, generi, azioni.
In ambito artistico poi, le etichette possono diventare fondamentali per favorire o meno l’accesso non soltanto a specifici ambienti o situazioni che mettono in contatto artisti stessi, ma anche – forse soprattutto oggi – per rendere riconoscibile l’artista verso un potenziale pubblico che può così ricordarlo facilmente (sia esso attore, sceneggiatore, scrittore, pittore, fotografo, scultore, istallattore, scenografo, musicista, cantante, ballerino…).
Ogni ruolo, ogni attività artistica in senso ampio deve avere una sua precisa collocazione e così le persone.
Non sempre però è semplice, automatico ed evidente.
E non è nemmeno una novità.
La storiografia moderna ricorre alla definizione di ‘uomo rinascimentale’ quando si tratta di individuare personalità che hanno eccelso in diverse arti e mestieri nel corso d’un periodo che per convenzione si individua nel XV secolo. L’uomo rinascimentale era dunque qualcuno che aveva dimostrato di padroneggiare ben più d’una disciplina, spesso mescolando attività fortemente diverse tra loro come politica e letteratura, oppure scienza e teatro e così via.
Nel XXI secolo non sembra cambiato l’approccio pubblico contemporaneo, persiste la necessità di semplificare, etichettare e schematizzare pratiche e volti. Ed esattamente come in passato ci sono molte eccezioni in parte figlie delle mutazioni artistiche provenienti dai periodi passati, in parte come diretta conseguenza delle nuove modalità comunicative, divulgative, e conoscitive. In altri termini, tra arti in evoluzioni, tecnologie e medialità etichettare persone e mestieri non è più così semplice (né probabilmente coerente con l’attuale realtà mobile, mutaforme e aperta alle contaminazioni).
Propongo un’intervista ad Andrea Villani, scrittore (non solo di romanzi), direttore artistico e conduttore di eventi, ospite di trasmissioni televisive di approfondimento nelle reti Rai e molto altro (una biografia dettagliata in fondo al pezzo – n.d.r.).
1 Quest’anno è uscito per Mursia ‘La strategia del destino’ che non è il tuo primo romanzo pubblicato. Ma per chi conosce e frequenta inziative culturali, sei noto anche per la rassegna culturale a Salsomaggiore Terme e altri eventi più o meno recenti. Poi accendo la televisione e ti ritrovo in trasmissioni nazionali di approfondimento in fasce orarie oscillanti tra il notturno e il primo pomeriggio. Mi spieghi come sei arrivato a occuparti di diverse attività che spaziano dal letterario puro all’intrattenimento finendo anche tra le maglie della medialità in senso ampio?
A.V: L’intrattenimento può essere considerato in tanti modi. Una volta per intrattenimento si concepiva la lettura del “Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes. Oggi credo che per esportare cultura, soprattutto letteratura, occorra agire in sinestesia tra le varie arti. Creare spettacolo. Trovo noiosissime le presentazioni canoniche dei libri. Il più delle volte trovo noioso anche l’autore. Quasi sempre il relatore. Sto cercando una via per parlare di libri che sia più leggera. Intendendo per “leggerezza” quella di Italo Calvino. Mica quella di Alba Parietti. La televisione, per chi scrive, non è punto d’arrivo, ma un passaggio. Che può essere considerato importante, anche se filtrato, in termini di comunicabilità. Un’esperienza che può allargare i confini della propria espressività. Addirittura della creatività. Se vissuta con la curiosità intellettuale di uno scrittore. Non con la velleità di una starlette. E’ capitato che autori televisivi leggessero alcuni dei miei romanzi. Senza essere imboccati o altro. Mi hanno provato e ho funzionato. Cosa significhi “funzionare”, in termini televisivi, devo finire di capirlo. Ma non posso fare a meno di notare che molti autori che demonizzano la televisione sono spesso coloro che, in televisione, non li chiamano mai.